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Zave Zave scrive di videogiochi da un sacco di tempo, ormai saranno sei settimane abbondanti. Constatato per l'ennesima volta che il mondo fa schifo, ha preferito rifugiarsi tra le spire dell'A.Rea. 21...

Sega Master System
Teddy Boy
Sega | Yoji Ishii
17 02 2015

Yoji Ishii non è passato alla storia per aver dato vita ai migliori giochi dell'epoca più luminosa di Sega, eppure ha fatto la sua piccola parte. Prima di diventare il 'producer' di Clockwork Knight per Saturn (benino) o di Gale Racer in versione arcade (molto male), Ishii ha prestato la sua esperienza su nomi del calibro di Out Run o di Fantasy Zone. Nel mezzo, prima del primo e dopo il secondo, c'è Teddy Boy Blues, arrivato in sala giochi nel 1985 e destinato, teoricamente, a scomparire velocemente nel nulla, se non fosse che, a distanza di trent'anni, c'è ancora qualcuno che si ricorda di essersi ritrovato con la versione per Master System tra le mani, poche primavere più tardi, quando la console a 8 bit di Sega provava a farsi spazio in Europa. Tra una spallata e l'altra dell'assai più diffuso e acclamato NES, naturalmente.

Teddy Boy Blues era un gioco semplice e limitato, eppure godibile e a suo modo affascinante, nella prima uscita in versione coin-op e, tutto sommato, rimase tale anche quando atterrò in edizione casalinga, inizialmente sotto forma di scheda gioco e, poi, riproposto come cartuccia vera e propria (più o meno in concomitanza con l'abbandono da parte di Sega del formato 'economico' e del relativo slot nella seconda versione occidentale del suo hardware). A casa Teddy Boy Blues perdeva il suffisso e diventava solamente Teddy Boy, almeno da questa parte del mondo... perché in Giappone il gioco per Mark III (come era conosciuto il Master System a quelle latitudini) continuava a mantenere il motivetto di sfondo che, concesso su licenza dall'allora 'pop idol' Yoko Ishino, dava un senso al titolo stesso (la canzone che svettava nelle classifiche nipponiche era, infatti, proprio 'Teddy Boy Blues').

Il gioco di piattaforme di Sega, comunque, nulla aveva a che vedere né con la canzone, tralasciando il tema sonoro portante, né con l'eventuale moda britannica che si rifaceva alla voglia di tornare agli stili dell'epoca edoardiana. Teddy Boy era e rimane un gioco di piattaforme essenziale, in cui un piccolo protagonista, armato di un'altrettanto minuta pistola, deve affrontare un mezzo quintale di nemici salterini e rimbalzosi, nel tentativo di farli fuori tutti e procedere verso il successivo di cinquanta stage esistenti. Pratica chiusa e tutti a casa. C'è una particolarità, in effetti: i nemici abbattuti si tramutano in piccole sfere (è tutto piccolo in Teddy Boy, davvero) da raccogliere quanto più velocemente possibile, nel tentativo di evitare che svolazzino crudelmente verso la barra del tempo a disposizione dell'eroe, rosicchiandone una porzione e facendo avvicinare il fallimento.

Il design quasi stilizzato, più per limiti hardware che per scelta di design, della versione Master System si accoppia benone ai fondali monocromatici e tutto concorre a creare assieme al 'level design' una strana sensazione ipnotica. Sì, sicuro, forse è la materia grigia consumata dal tempo di chi scrive a vedere una dose di Jefferson Airplanes in una roba elementare come Teddy Boy, eppure quella costruzione dei livelli... Giusto, quale costruzione dei livelli? Presto detto: ogni stage di Teddy Boy è una sorta di tunnel che si ripete all'infinito su sé stesso. Muovendosi verso l'alto o il basso, insomma, non si raggiunge mai una sommità, né ci si può chiudere sul fondo di un pozzo: tutto continua a fluire. I nemici che si vedono scomparire verso il basso, tagliati nell'inquadratura che magari in quel momento è rimasta ferma (perché l'eroe è saldamente impegnato a farsi i fattacci suoi), ricompaiono dopo pochi istanti dall'alto. Forse non è magia e nemmeno droga lisergica, però un po' funziona e ti ritrovi infilato in questo strano Blues di Teddy Boy.

Meglio affidarsi a tutto quel che c'è per trovare della magia nel gioco Sega, comunque, perché di suo non è che poi ne abbia chissà quanta. Il 'character design', soprattutto su Master System, è più lineare che mai, anche se i nemici sono colorati e simpatici il giusto, così come la varietà nella ricetta base si rivela praticamente inesistente. Ma è uno di quei giochi della prima metà degli anni '80, tutto concentrato sulla sua sfida più essenziale, voglioso di spingere il giocatore semplicemente a ripetere le azioni in situazioni identiche, ma progressivamente più esigenti in quanto a difficoltà.

Se, poi, voleste proprio fare quelli che se li provano tutti: date un'opportunità alla riedizione del 1991 per Mega Drive (disponibile solo in Giappone, in origine), che escludeva la colonna sonora ancora una volta e infilava delle drammatiche sveglie pronte a suonare, in maniera altamente detestabile, ogni pochi secondi. Lisergico anche quello, a modo suo.

[Zave]


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