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NO1 Imbarcato in tenera età su un cargo battente bandiera liberiana, NO1 ha sviluppato grazie ai suoi viaggi in giro per il mondo, e ai conseguenti contatti con numerose popolazioni indigene legate alle tradizioni, una smodata passione per l'antico. Passione che oggi riversa nel retrogaming, in particolare se targato Sega...

Sinclair ZX Spectrum
The Hobbit
Melbourne House | Philip Mitchell | Veronika Megler
10 03 2008

Ci sono cose che non si dovrebbero fare: ad esempio, confessare di ricordarsi di quando The Hobbit fu lanciato su ZX Spectrum. Eppure è proprio così. Mi ricordo, e pure bene, con tutte le conseguenze anagrafiche che questo comporta. Certo, allora il rapporto tra me e i videogiochi era piuttosto aleatorio, un po' come può esserlo oggi quello nei confronti del Blackberry (so che è di moda, ma non me ne frega niente), e così l'apparizione di questa tastierina in grado di produrre immagini riprese dai classici tolkieniani mi provocava al massimo un po' di curiosità. Solo che già allora si intuiva la realizzazione del sogno proibito dei lettori del Signore degli Anelli e affini: riprodurre a tutti i costi il mondo di Tolkien, al di là della pagina stampata. Tanto più che una sua decente rappresentazione cinematografica era distante ancora una ventina di anni.

Forse The Hobbit non può essere considerato come una rappresentazione decente della storia di Bilbo Baggins. O forse tutto il contrario, almeno dal punto di vista strettamente letterario. Visto con gli occhi di oggi, il suo aspetto è chiaramente quello di un reperto paleoindustriale (1982), ma The Hobbit ai suoi tempi fu un vero classico, con vendite travolgenti, ottima risposta critica e addirittura un concorso che andava a premiare il primo che fosse arrivato in fondo all'avventura. Quando si parla di classicismo, poi, si intende anche un gioco che arriva a recuperare una struttura quasi esclusivamente letteraria: schermate fisse, insomma, con comparsa progressiva e progressiva colorazione degli elementi grafici, abbastanza simili tra l'altro ai disegni originali creati dallo stesso Tolkien negli anni trenta. Per di più la sezione grafica occupa solo due terzi dello schermo, in quanto tutto il resto è dedicato alla descrizione narrativa delle scene, fedele all'originale, e all'inserimento delle vostre risposte e delle scelte di azione. L'interazione finiva lì: il tutto è davvero distante anni luce dai videogiochi d'azione dei giorni nostri.

Non che allora il gioco non venisse considerato complesso o sofisticato: elaborato dall'australiana Melbourne House capitanata da Philip Mitchell, aveva richiesto un team di programmatori, grafici e persino esperti di letteratura per essere messo insieme. L'intelligenza artificiale era quella più avanzata che si potesse avere a quei tempi: il gioco era in grado di comprendere risposte abbastanza complesse e aveva a sua disposizione un vocabolario piuttosto articolato. Dato che The Hobbit veniva giocato in tempo reale, poi, i personaggi potevano reagire per proprio conto e ritrovarsi belli e spacciati anche al di là dell'intervento del giocatore. Alla fine il gioco poteva essere pure elementare come costruzione, ma la difficoltà era davvero elevata. Non so se il concorso di cui sopra andò deserto, ma so che io per arrivare alla fine ci ho messo una quindicina di anni, fra blocchi e incomprensioni varie. Erano davvero altri tempi, ma avevano e mantengono il loro fascino.

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